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E' vero che i Giapponesi non dicono parolacce?

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投稿 by Matteo Savarese Sat Sep 27, 2014 6:38 pm

Una cosa che spesso si sente dire da stranieri che abitano in Giappone è che i Giapponesi non dicono parolacce. Sarà vero?
In un certo senso potrebbe esserlo, però questo sicuramente non significa che i Giapponesi non possano essere volgari.
La volgarità è la rottura di alcune regole linguistiche che definiscono l'etichetta linguistica. La "non-volgarità" nasce probabilmente prima della volgarità. Ovvero la parlata "non-volgare", pulita, da persona educata rappresenta la base della comunicazione tra individui in qualsiasi società.
La rottura della regola viene considerata volgare, ovvero, se seguiamo l'origine del termine italiano, "popolare", cioè del popolo che non sa niente e quindi non conosce nemmeno le regole di comportamento e le regole linguistiche.
In Giappone la parlata "volgare" viene chiamata kitanai, cioè sporca, e in origine ciò si riferiva probabilmente non alla sporcizia delle parole (metaforica, perché le parole non possono essere sporche in senso stretto), ma alla sporcizia delle persone che usano tale parlata. E siamo quindi vicini al senso italiano: sporco, quindi povero, del popolo, popolare (nei tempi antichi il popolo era sempre povero e sporco).
Nelle società antiche le persone del popolo infrangevano le regole linguistiche perché non le conoscevano, nelle società moderne dei paesi sviluppati invece, spesso le regole vengono infrante di propria volontà, per desiderio di trasgressione o per dare all'interlocutore una certa impressione di sè, e spesso ciò viene fatto inconsciamente, per abitudine.
Il grado di volgarità di una parola dipende quindi dalla forza con la quale essa infrange le regole di etichetta linguistica della società a cui appartiene. L'etichetta linguistica non è la stessa in tutto il mondo, e così anche la stessa parola potrebbe suonare volgarissima in un paese, mentre in un altro potrebbe essere considerata normale, oppure non avere senso. L'etichetta lingustica è fortemente influenzata dalla cultura del paese in cui nasce.
Potrebbe qundi essere corretto dire che in un determinato paese le persone sono più volgari ed in un altro meno, ma intendendo che la tendenza alla trasgressione linguistica in un paese è più o meno accentuata, e non invece, come spesso si fa, considerando la volgarità di una certa popolazione come proporzionale alle espressioni a sfondo sessuale che vengono pronunciate in media. Nel caso dei Giapponnesi, si potrebbe probabilmente dire che la tendenza a utilizzare termini di natura sessuale è bassa, ma ciò non dovrebbe essere confuso con l'assenza di volgarità. Non in tutti i paesi le espressioni sessuali sono volgari allo stesso modo, e in generale lo sono di più nei paesi dove vigono dei forti tabù sessuali, e questo è proabilmente il caso dell'Italia e di altri paesi occidentali.
In Giappone la volgarità si esprime in altri modi, che forse non sono noti a tutti gli stranieri che vivono in Giappone, ma che sarebbe invece opportuno conoscere.
In Giappone l'etichetta linguistica impone numerose regole, più di quanto non succeda nelle lingue europee. Non vi è "un" registro formale e "un" registro informale, ma una gamma di registri. Il non utilizzo di un registro previsto in una certa situazione può essere considerato volgare o, in casi estremi, addirittura sconcio. Ma, come si diceva, la volgarità in Giappone non presuppone l'utilizzo di determinati riferimenti sessuali o fecali, e nemmeno l'infrazione di norme di comportamento religiose, come nella bestemmia.
Quando si litiga con qualcuno ad esempio, sappiamo bene quali sono i termini con cui ci rivolgiamo alla controparte, e non c'è bisogno di ripeterli qui.
In Giappone ci si può rivolgere a una persona in vari modi, esprimendo un diverso livello di formalità o di volgarità.
Nei registri formali del giapponese le persone vengono chiamate con il loro nome seguito da san, kun, ecc.m oppure con il loro titolo, come sensei. Nei registri meno formali però, viene utilizzato un pronome di seconda persona, che suona meno rispettoso e, in certi casi, può essere addirittura offensivo. Si ha quindi anata, utilizzato ad esempio dagli impiegati pubblici, con la variante anta, utilizzato piuttosto dalle mogli verso i loro mariti. Poi kimi, utilizzato con i bambini, e omae, utilizzato tra amici maschi, da un marito un po' rude verso sua moglie o da genitori severi verso i figli. Quando omae diventa ome, con la perdita della a, il tono si fa volgare. Eppure ome è semplicemente una variante di omae, che letteralmente significherebbe "davanti", ovvero, "tu che stai qui davanti". Lo stesso si può dire per teme, contrazione di temae, termine volgare che, se non è usato scherzosamente, indica chiaramente rabbia o disprezzo verso l'interlocutore. Se diciamo teme in giapponese, il registro è molto volgare, sicuramente paragonabile a quando ad esempio in italiano si dice figlio di.... Eppure stiamo semplicemente chiamando il nostro intelocutore "tu che stai qui davanti", senza bisogno di tirare in ballo la professione dei genitori. Vorrà dire che i giapponesi sono meno volgari? Ma in una società dove l'etichetta impone di chiamare l'interlocutore per nome e titolo, il solo fatto di chiamare qualcuno "davanti", costituisce una trasgressione notevole.
Matteo Savarese
Matteo Savarese
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